martedì 28 ottobre 2008

Archeologia ? scoprila a Oschiri
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Altare rupestre


Altare rupestre di Santo Stefano (unico nel Mediterraneo).
Descrizione del sito
Conosciamo da fonti scritte o da testimonianze di reperti archeologici, la storia di ogni comunità o territorio. L’indagine retrospettiva ci permette anche, grazie al contributo di molte discipline, di conoscere le vicende preistoriche e sempre meglio il percorso evolutivo dell’uomo. Permangono ancora molte lacune e alcuni tasselli non trovano posto nel mosaico ricostruttivo, ma la ricerca in atto e nuovi ritrovamenti colmano tratti di incertezza e scontornano zone di chiaro-scuro.
Gli interrogativi comunque sono ancora molti. Ad esempio, nel caso specifico della Sardegna, mentre si è molto indagato sul periodo nuragico, punico e fenicio ed anche romano, poco si sa del successivo periodo bizantino fino all’inizio del periodo giudicale, attorno al mille.
La cristianizzazione della Sardegna, ci ricordano gli storici, è avvenuta lentamente e a partire dal regno di Costantino (314) si comincia ad avere qualche notizia di presenze vescovili, ma ancora nel 593 Gregorio Magno lamenta le difficoltà di diffusione del cristianesimo, anche se cominciano ad insediarsi e diffondersi il monachesimo.
Tale sintetico quadro fa da sfondo all’oggetto di questa nota, poiché il sito di S. Stefano ad Oschiri, in particolare la roccia scolpita, viene collocato nel periodo bizantino dagli studiosi che se ne sono occupati, invero assai pochi e con modesti mezzi ( P. Basoli, F. Sanna). Altri studiosi (G. Tanda e E. Contu) sembrano più propensi ad assegnare una datazione medioevale, mentre qualcuno parla addirittura di periodo nuragico.
Certamente, conoscendone la datazione, sarebbe assai più facile anche l’interpretazione del significato delle incisioni.
Di fronte dunque all’enigmatica roccia incisa e nell’altrettanto suggestivo e complesso contesto del sito di S. Stefano, ogni visitatore ed appassionato esprime giudizi, sensazioni e illazioni, per così dire, privi di sostanza scientifica e documentaria, anche se ovviamente carichi della propria cultura, che è il vero filtro di ciò che gli occhi vedono, nel senso che ognuno vede solo ciò che la sua cultura gli permette di vedere.
Perciò unisco al coro anche le mie deduzioni, con la segreta ed ambiziosa speranza non tanto di dire la verità, quanto di poter contribuire al disvelamento dell’intrigante quesito che le rocce incise pongono.
Le “certezze” su cui mi muovo sono innanzitutto che il luogo appartiene al “sacro”. Non solo per l’antica presenza di domus, ma anche per la chiesetta di S. Stefano, che dimostra un chiaro sincretismo religioso. Vuoi per la suggestione, vuoi per la bellezza del luogo, ti prende comunque una sensazione fisica di benessere, di stare in pace, spiritualmente e materialmente.
Oltre alla sacralità del luogo, è indubbia l’iterazione simbolica: figure, schemi e tipi si ripetono. L’evento che nella storia umana più si ripete è proprio la morte e niente più dei cimiteri hanno elementi che si ripetono, pur con infinite ed impercettibili varianze.
Le necropoli, anche se non si rinvengono resti umani, si riconoscono per la ripetizione di alcuni simboli, oggi la croce conficcata nel terreno e nel passato, ad esempio quello nuragico sardo, la stele della tomba dei giganti.
Cito questa figura perché gli elementi della stele riecheggiano nelle incisioni di S. Stefano. La stele nuragica è essenzialmente stratificata: la parte bassa, gli inferi, il budello di introduzione del defunto. Sopra la terra, il cui simbolo è il quadrato e sopra ancora la volta del cielo.
La stessa simbologia, inferi, terra, cielo e contenuta nelle innumerevoli incisioni rupestri della Valle Canonica. Nell’arco del cielo di queste urna-casa, raffigurazione cosmologica, ci sono delle tacche, così come sopra l’arco del cielo ci sono delle coppelle, tante quanti sono i defunti di quella famiglia o tribù-stirpe. Ma si possono interpretare anche come il percorso del sole, dell’eterno scorrere del tempo.
Come a S. Stefano, sulle rocce camune, si susseguono le incisioni rupestri fino a saturare la “lavagna” naturale.
Il tratto più ricorrente, quasi archetipo della “lavagna” di S. Stefano, mi pare il quadrato sormontato dall’arco acuto: terra e cielo (nell’arco c’è la croce: Dio è in cielo). Ma quadrato e arco, come già detto, appartengono al regno dei morti. Qui il segno dei morti è cristianizzato, reinterpretato, superato con l’aggiunzione di nuovi elementi simbolici.
Insomma mi sembra che la lavagna porti i segni di un passaggio sincretico della simbologia religioso-funeraria, che è avvenuta con l’introduzione del cristianesimo, quindi nella fase finale dell’impero romano.
Vedo dunque la simbologia della stele nuragica, ma anche ciò che diverrà la sintesi dell’edicola, dell’immagine del culto: il quadrato, sormontato dall’arco –cupola del cielo, che contiene la croce o il santo. Mi piace vedere nelle coppelle il viaggio dell’astro solare, o il firmamento, che diventerà l’aureola di stelle dei santi o della Madonna… simbolo di appartenenza cosmologica o ultraterrena.
Le varianti a questo impianto sono percettibili, ma scompaiono se colte nella loro essenza. Quante sono le varianti alla lapide funeraria, anche se il fatto di essere lapide (di eterna pietra) le accomuna tutte?
Nella roccia di S. Stefano è per me segnato il lento passaggio del culto funerario nuragico a quello cristiano, anche se quest’ultimo sembra una permanenza simbolica quasi totalizzante.
Sulla roccia è incisa tutta la difficoltà della penetrazione del cristianesimo, che ancor oggi ha percettibili sacche di resistenza nei meandri degli archetipi sardi, come se lo spirito non riuscisse a smaterializzare la sempre affiorante pietra.
La pietra comunque conserva la memoria, in particolare nel nostro caso, quella dei nostri defunti.

Ma una cosa chiedo: che sia tagliato dalle radici quell’albero.
Sicuramente quell’albero davanti all’altare-lavagna non è mai esistito. Va tagliato perché non consente di vedere l’interezza delle incisioni.
Tagliare gli alberi, quando è necessario per usarne il legno, non sia considerato un atto criminale, come predicano molti ecologisti della domenica. Il legno è fra tutte le risorse la più sostenibile, rinnovabile, ecologica. Il patrimonio forestale dei Paesi del Nord del mondo, che vivono di legno, è in continua crescita. Più il legno si consuma, se razionalmente ed intelligentemente coltivato, più aumenta: basta tagliare un albero e piantarne tre!
Tagliare quel leccio, in questo caso, non rientra però nel suo naturale utilizzo –ovvio che se ne può far legna!- rientra nella salvaguardia del monumento. Così come è lecito e doveroso far pulizia di erbe, cespugli, rovi nei siti archeologici, qui, per favore, si tagli quel leccio!